A un anno dallo sconvolgente tsunami che ha duramente colpito l’Indonesia, una delegazione di ECPAT Italia è andata a controllare il centro medico construito a Meulaboh con l’aiuto di Rock No War e del gruppo musicale Nomadi.
Sono passati quasi tredici mesi da quando la grande onda si schiantò sulle coste dell’Indonesia, causando morte e distruzione. Dopo il triste anniversario, i flash dei fotografi e i taccuini dei giornalisti sono ripartiti come se niente fosse. Ma qui, c’è ancora molto da raccontare. Ci sono ancora intere comunità che vivono di stenti, intere famiglie (o quel che resta del loro nucleo familiare) che vivono in tende da profughi; mancano ancora molti servizi, strade e ponti sono ancora devastati.
Gabriella Incalza Kaplanova (ECPAT Italia)
Indonesia, Gennaio 2006
Atterriamo a Medan, ma per raggiungere Meulaboh - dove ECPAT Italia, con l’aiuto di PKPA (una associazione locale che fa parte della rete internazionale di ECPAT) ha costruito un centro medico - ci vogliono quasi tre giorni di strada. Prima dello tsunami, bastavano poche ore; oggi, bisogna allungare di diversi chilometri. Oltre alla sottoscritta e a Marco Scarpati, presidente di ECPAT Italia, ci accompagnano alcuni amici, due infermieri, Alessandro Mussini e Nicoletta Vinsani, il fotografo Giuliano Ferrari, l’avvocato Gabriele Catalini (Croce Verde Reggio Emilia), l’assistente dei Nomadi Daniela Campioli e, come sempre, Beppe Carletti, tasterista della band. I Nomadi, grandi amici di ECPAT Italia, sostengono le attività dell'associazione da diversi anni. Dopo il maremoto che ha colpito il Sudest asiatico lo scorso 26 dicembre, la band ha deciso di impegnarsi anche su questo fronte. Così, sabato 5 marzo 2005 i musicisti si sono esibiti gratuitamente a Cesena e hanno devoluto l'intero incasso (oltre ventimila euro) a questo progetto. I costi del concerto sono stati sostenuti dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Cesena e dalla Cassa di Risparmio di Cesena. L'evento è stato Patrocinato dal Comune di Cesena e dalla Provincia di Forlì Cesena. Ai gesto dei Nomadi si sono aggiunti anche Rock No War, altro storico partner con cui sono stati finanziati diversi progetti nel Sudest asiatico, e la P. A. Croce Verde di Reggio Emilia.
A Meulaboh ci attende una piacevole sorpresa. Dopo ore passate con il naso appiccitato al finestrino e il cuore in gola per la devastazione che, a tratti, regna ancora sovrana, arriviamo davanti alla clinica. È con una punta d’orgoglio e molta gioia che constatiamo lo stato dei lavori (vedi foto); il centro è terminato ed è proprio un bel edificio. Una giovane ma bravissima dottoressa indonesiana (arrivata subito dopo l’onda, non si è mai fermata un attimo in tutti questi mesi) ci accompagna all’interno e, con il progetto alla mano, controlliamo passo a passo l’intera struttura. Ci sarà qualche piccola modifica da fare che spieghiamo subito ai muratori che ci seguono e prendono le misure. Ora, manca soltanto l’attrezzatura medica; Scarpati e Catalini, con il prezioso aiuto dei due infermieri reggiani presenti, ragionano sui macchinari necessari che spediranno fra poche settimane, assieme a una ambulanza, il tutto donato dalla Croce Verde di Reggio Emilia. Così, entro al massimo due o tre mesi, la struttura potrà curare i tanti bambini della zona e assistere le donne prossime al parto. “Mi piace andare a controllare quello che finanziamo – racconta Beppe Carletti - anche per render conto a chi mi da una mano e crede nelle nostre iniziative. Devo dire la verità, onestamente non mi aspettavo una cosa così bella, pensavo a una cosa un po’ più spartana. Sono molto contento di aver fatto questa scelta”.
L’intera città di Meulaboh è un cantiere aperto. Diverse strutture sono già state ultimate, spesso con soldi internazionali ma non solo, ma ancora tante sono in costruzione. “La gente ha lavorato tanto, non è certo rimasta con le mani in mano – racconta oggi Carletti - Ho incontrato gente comunque sorridente, che guarda avanti. Quando siamo stati nei campi profughi ho visto la gente che sorrideva; c’erano soltanto 200 bambini su 500 famiglie, il che è assurdo visto che, di solito, da queste parti hanno una media di tre, quattro bambini a famiglia. Questo ci dice cosa è successo e ci fa riflettere”. Ma quello che è successo ormai lo sappiamo tutti. Quello che dobbiamo ricordarci è che laggiù, hanno ancora bisogno di noi.